PREMIO IN/ARCHITETTURA 2020 SICILIA E CALABRIA
I PUNTI DI VISTA DELLA GIURIA
Fabrizio Aimar intervistato da Ignazio Lutri
La tua attività si connota da tempo per l’attenzione al tema dell’ecologia, una chiave di lettura che forma uno sguardo chiaramente individuato sulle esperienze architettoniche. Quali esperienze sottolineeresti in questo senso come fondamentali dell’attuale approccio alla progettualità?
Durante il lock-down, ho avuto il piacere di partecipare come relatore al convegno dal titolo “Panglossismo. L’Architetto post-pandemico”, con un intervento dal titolo: “Future Proof. Un pensiero ‘a prova di futuro’”. In esso, ho ribadito come circa il 40% delle emissioni di CO2 a livello globale sia imputabile al settore costruttivo, sia direttamente che indirettamente. Di questo 40%, l’8% è ascrivibile al solo ciclo del cemento. Dunque, ci rendiamo conto come il comparto edile, e il relativo sistema gestionale ex-post, impattino profondamente sui cambiamenti climatici che stiamo già vivendo, evidenziando il tipo di sviluppo non sostenibile da noi adottato. Dunque, al fine di limitare e contrastare le ricadute che tali mutamenti stanno avendo sulla vita di tutti e tutte noi, la resilienza ci offre diverse possibilità in chiave operativa. Dalla mitigazione all’adattamento, fino al radicalismo verso nuovi scenari indicati nel concetto di panarchia promosso da Gunderson e Holling nel 2002, si comprende la necessità di riconnettere l’individuo al suo contesto. La necessità di ripensare le nostre città ci pone davanti a diverse sfide: le isole di calore urbane, l’incremento delle temperature estive e del fabbisogno energetico per il raffrescamento, le piogge intense in un breve arco di tempo (flash floods), il distanziamento fisico, ecc. Occorre lavorare profondamente sullo spazio pubblico e sul patrimonio edilizio esistente (privato e pubblico) per far fronte con rapidità alle sfide a cui siamo chiamati, già da ora, ad affrontare. L’Architetto dovrà cogliere queste opportunità, abbracciando la transdisciplinarietà e il confronto con le altre discipline per offrire risposte complesse a problemi complessi come quelli che stiamo vivendo.
Indicheresti alcuni fattori che ritieni importanti per rendere concreta e favorire la qualità (nelle sue diverse accezioni e declinazioni) nella trasformazione delle città, del territorio e del paesaggio? Vuoi segnalare esperienze che consideri in tal senso esemplari?
Storicamente, la qualità è sempre stata una delle componenti storiche dell’Architettura, a partire dal celebre concetto di Venustas proposto da Vitruvio e della relazione che essa ha anche con la Firmitas e l’Utilitas. Una bellezza che contribuisce a modellare i comportamenti di chi vive quegli edifici, creando spazi di vita che influiscono sulla componente psico-fisica dei suoi fruitori e di una comunità. Dunque, un ambito scalare, perché ogni edificio, seppur privato, origina anche ricadute sul pubblico in termini di percezione, creando un contesto. Tale diritto alla bellezza sembra invece generare imbarazzi decisionali nell’indicare la sua essenzialità, a scapito di una mera concezione funzionalista dell’abitare (Utilitas) e di un tecnicismo rassicurante (Firmitas). Infatti, alla luce delle realizzazioni immobiliari degli ultimi decenni, sembra leggersi un chiaro fraintendimento che alimenta questa perplessità: l’Architettura è da intendersi come mezzo o come fine? Nelle democrazie contemporanee, la decisione di puntare sulla qualità dovrebbe già essere parte integrante del sistema decisionale pubblico, nonché metro di giudizio e paragone. Gli edifici ex-novo delle Pubbliche Amministrazioni, in quanto beni collettivi della società e simbolo di uno Stato che ha come scopo l’innalzamento dei/delle propri/e cittadini/e, dovrebbero ergersi per primi quale esempio nello stimolare la ricerca della qualità. Inoltre, ritengo anche che ogni realizzazione che coinvolga la modifica significativa di una porzione di città debba passare attraverso l’indizione di concorsi di progettazione, necessariamente. Solo così la spinta alla qualità progettuale diverrà una componente necessaria all’aggiudicazione dell’opera, e non residuale. Probabilmente, anche la predilezione di un sistema che premi la corposità curricolare dei contendenti limita molto l’affluenza di idee soprattutto dai/dalle professionisti/e più giovani, che si trovano senza i requisiti per partecipare e che, al più, fanno capolino per rispondere alla necessità dei bandi di includere “… un professionista laureato abilitato da meno di cinque anni all’esercizio della professione …” nei raggruppamenti di professionisti. Pertanto, occorre offrire loro opportunità concrete di mettersi alla prova nel quotidiano, non promesse future di opportunità. Alle celebrazioni delle Lauree si vedono molte persone festeggiare il successo dei nuovi Dottori e Dottoresse in Architettura. Gli stessi individui che, al momento di eseguire lavori edili in ambito privato, magari si affidano alla pratica del massimo risparmio o ribasso ridimensionando così anche la portata dell’Architetto. Dico a loro: quelle a cui avete rinunciato sono, in realtà, le migliori qualità di professionisti che potrebbero essere anche vostri figli/e, nipoti/e o cugini/e, speranza e futuro della società.
Il premio Inarch, in una potente definizione data da Vincenzo Cabianca, mette in risalto l’eccellenza ma altresì denuncia la generalità della situazione del territorio, delle città e dell’edilizia (non una passerella dunque, ma una indagine sullo stato dell’architettura). Quale è la tua idea di premio e quali motivazioni (personali e generali) trovi essenziali per il loro svolgimento?
Penso che premiare sia un atto importante, perché scegliere la qualità non è un’azione banale, ma quasi un gesto di coraggio se rapportato al nostro contemporaneo. La qualità illumina e innalza anche l’individuo, mentre il degrado attira a sé negatività e “abbrutisce” comportamenti e coscienze anche nella persona, come riflesso dell’habitat in cui vive. La qualità offre speranza e democrazia, in certi contesti. Il bello è dunque condizione essenziale, non residuale, del vivere. Per questo credo sia fondamentale parlare di qualità e riconoscerla, innalzarla, portarla alla discussione attraverso le labbra di tutti, per via del suo profondo valore sociale, etico e anche pedagogico in ognuno di noi.
FABRIZIO AIMAR
Architetto, Dottorando in Urban and Regional Development presso il Politecnico di Torino. È Consigliere presso l’Ordine degli Architetti P.P.C. della Provincia di Asti.
Dal 2009, i suoi scritti compaiono in testate quali Il Giornale dell’Architettura, Teknoring, C3 e Wired. Le attività di studio e ricerca sono state oggetto di articoli e interviste da parte dei quotidiani La Repubblica, Avvenire e La Stampa.
È stato Visiting Researcher presso ICCROM (IT), guest lecturer presso le Università di Auckland (NZ), Portsmouth ed Hertfordshire (UK), relatore presso il DISAFA dell’Università di Torino e la Scuola di Specializzazione in Beni Architettonici e del Paesaggio del Politecnico di Torino. Inoltre, è stato relatore al XXVIII Salone Internazionale del Libro, Torino e alla Camera dei Deputati del Parlamento italiano, Roma.